Il tempo secondo Laila Al Habash. Tappeti, desideri e altre urgenze da disinnescare
I nostri Pierluigi Spagnolo e Nicola Betti hanno incontrato Laila Al Habash a Milano il 20 ottobre, per la presentazione del suo nuovo album, il secondo, in uscita il 24 ottobre, dal titolo Tempo. Quel che segue è il racconto che Pierluigi ne ha tratto.
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Per Laila Al Habash, il tempo è un oggetto misterioso e impalpabile da maneggiare con cura: “È una cosa che tutti abbiamo ma nessuno sa usare davvero”, ci racconta. Laila nell’incontro ci parla anche di cosa significa oggi essere artista, giovane, e vivere la propria epoca con le cuffie nelle orecchie e il cuore pieno di domande. Come quella sul desiderio, altra parola chiave del disco, che aleggia tra i beat elettronici e i testi sospesi. O quella sull’arte come resistenza, anche – e forse soprattutto – in tempi di apocalissi annunciate e scroll compulsivo.
“Non sto mai nel presente”, ammette quasi con un sorriso. “Eppure, ci provo, anche solo per scrivere. Mi metto lì e mi osservo da fuori, come un’aliena che studia sé stessa”. È proprio lì che nasce Tempo, un album nato da un sogno – letteralmente – in cui il titolo le viene sussurrato in dormiveglia. “Tempo è stata una bussola per tutto. Mi ha aiutata a mettere ordine dentro e fuori. Ci ho messo anni per scriverlo e forse non avrei potuto fare diversamente. Questo disco ha chiesto tempo, come una persona difficile”.
Non sorprende allora che anche la copertina sia venuta prima della musica: un tappeto, lei sopra, nient’altro. “I tappeti sono casa. Sono cresciuta così, tra tessuti e trame orientali. È stato naturale scattare lì, nella Farmand Gallery di Roma, che è un posto che mi ha rapita”. Il tappeto, in fondo, è anche un perfetto simbolo di tempo accumulato: annodato e intrecciato.
Laila è consapevole di parlare a una generazione che vive nell’ansia di dover sempre arrivare da qualche parte. Lauree a vent’anni, lavori perfetti su LinkedIn, successi serializzati su TikTok. Lei però no, fa dischi che “non funzionano su TikTok” e lo dice con orgoglio, però, se dovesse capitare… “Bisognerebbe poter perdere più tempo. Fare cose che non servono a nulla. I momenti di vuoto sono quelli in cui capisco di più”.
C’è qualcosa di rivoluzionario in questa lentezza consapevole. In questo modo di cantare e raccontare non per dare risposte, ma per “dire dove sono stata”, lasciando che chi ascolta trovi il proprio modo di interpretare. Come in Desiderio, il brano più libero e strutturalmente anomalo del disco: “Il desiderio vive di fame. Non muore se non lo soddisfi, anzi. È proprio lì che prende forma”.
Da Roma al Brasile, passando per la bassa padana di Max Pezzali: “viaggiare è il modo in cui capisco chi sono”, dice, “anche solo facendo il Grande Raccordo Anulare. Da piccola scrivevo le canzoni in macchina. Per me il tragitto era già un viaggio, non serviva la Thailandia”.
Così Timido, una delle tracce del disco, nasce da uno scambio inaspettato con i brasiliani: “Io pensavo di essere espansiva. Lì invece mi dicevano che ero timidissima. Mi ha colpito. E mi ha fatto pensare: forse le cose che crediamo di noi non viaggiano con noi. Forse cambiano anche loro, come cambia il paesaggio dal finestrino”.
Dentro il disco ci sono molte di queste tappe – intime, sonore, simboliche – che raccontano un’identità stratificata: Laila è italo-palestinese, nata a Roma ma cresciuta nel mezzo. E si sente, anche quando canta ritmi sahbi o titola un pezzo Tuareg. La sua musica non è world music, ma un mondo interiore che si apre e accoglie.
Quando si parla di riferimenti, gli occhi si illuminano: “Bruno Lauzi è uno dei più bravi a scrivere d’amore. Enzo Carella, Iva Zanicchi… ho un debole per i lati B dei dischi anni ’60 e ’70”. A volte, confessa, testa i suoi pezzi con la madre: “Se lei non li conosce, so di aver trovato una gemma nascosta”.
Ma Laila non è solo revival. È anche attenta al presente, a quello che la circonda. “Mi piace quando la musica dice qualcosa del mondo in cui stiamo. È impossibile non parlare dell’ansia del futuro se vivi qui, ora”.
E quando si tocca il tema della guerra – la Palestina, in particolare – le parole diventano più pesanti: “Io sono italo-palestinese. Vedere le piazze piene per Gaza è stato importante. La cultura deve dire qualcosa. È respirare, non un hobby. Non è accessoria. È necessaria”.
E adesso? Si riparte dai club, “la mia chiesa” come li definisce. Un tour nei piccoli spazi, quelli dove si può toccare l’aria, sudare insieme, sentire il cuore degli altri battere nel tempo dei beat. “Non vedo l’ora. È da troppo che non faccio un vero club tour. Mi manca proprio”.
Se il tempo è il vero protagonista del disco, il live sarà forse la sua messa in scena più sincera. Perché lì il tempo si ferma davvero, si dilata, si fa eternità. Un po’ come nella frase di Shakespeare: “Il tempo è troppo lento per chi aspetta, troppo veloce per chi ha paura… Ma per chi ama, il tempo è eternità”. Laila ascolta, sorride e risponde senza esitazioni: “Mi ci rivedo. Sì, assolutamente. Il tempo non è il problema. È come lo vivi, il problema”.


